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Perché nel buio la casa aveva una sua sacralità, e un suo abbandono. Lei c'era,
nell'assenza, c'era ancora di più. L'ultima volta l'avevo trascinata sul divano. Non
c'eravamo guardati mai. Mi chinai per cercare dove, tra il bracciolo e la spalliera, lei
aveva inabissato i suoi sussulti. Ginocchi in terra, strusciai il viso nell'oscurità. Italia
era stata così, braccata in quell'angolo. Frugavo con le narici, con la bocca... cercavo
quello che lei doveva aver sentito mentre la prendevo. Volevo essere lei per sentire
l'effetto che io provocavo nella sua carne. Nemmeno tentai di resistere. Corsi in fretta
verso il precipizio senza quasi accorgermene. Il piacere si allargò nella pancia tiepido
e profondo, entro nelle spalle, nella gola. Proprio come il piacere di una donna.
Ma tornai presto uomo, Angela, e non mi rimase nessuna dolcezza. Solo l'odore
del mio fiato mentre gli ultimi sussulti morivano dentro quel divano. E il disagio, e
un'improvvisa tristezza, che in quel buio violato era ancora più triste. Avevo le gambe
anchilosate ed ero sporco come un adolescente. Accanto ai miei ginocchi c'era quel
cane che non si era perso uno spasimo della mia foia. Mi tirai su e urtando contro le
cose cercai il bagno. Trovai una porta e un filo elettrico sul muro, lo seguii fino
all'interruttore. M'incrociai nello specchio di fronte: gli occhi folgorati dalla luce in
un lampo maligno. Ero in un loculo di vecchie piastrelle. Aprii il rubinetto. Mentre
mi piegavo con il viso sul lavandino, vidi dentro un bicchiere appeso a una bocca di
ferro uno spazzolino da denti troppo usato. Insieme al disgusto verso quelle setole
slabbrate mi aggredì il disgusto di me stesso. Appeso sul bordo di una piccola vasca
da bagno a semicupio c'era un tappeto di gomma. La tenda plastificata della doccia
pencolava ammuffita sul fondo, avvolta in alto sull'asta che la sorreggeva. La
saponetta era perfettamente in ordine nel suo contenitore. Sulla mensola sotto lo
specchio c'era solo una crema per le mani, e il barattolo di vetro opaco dove
s'intravedeva la pasta del fondotinta che Italia si stendeva sul viso. In terra c'era un
cesto di vimini, sollevai il leggero coperchio, dentro vidi un mucchietto di panni
sporchi. Mi fissai su un paio di mutande gualcite. E sentii dentro di me una voce
greve che m'implorava di cacciarmele in fretta nella tasca e di portarle via con me.
Rialzai lo sguardo nello specchio e chiesi ai miei occhi di lupo che razza di uomo
fossi mai diventato.
Spensi la luce, e tornai di là. Passando accanto al divano, nel buio, mi chinai per
aggiustare la fodera fiorata. Il cane guaì, gli avevo pestato una zampa. Chiusi la porta
e spinsi la chiave nel suo nascondiglio, ma la gomma aveva perso di elasticità. Cercai
di ammorbidirla tra le dita, non mi andava proprio di farlo con la saliva.
Sentii un rumore, un ticchettio lontano. Tacchi contro gradini metallici. Infilai la
gomma in bocca e masticai con forza. La chiave mi cadde dalle mani, mi chinai a
cercarla. Il ticchettio era finito, affondato nella terra. Avevo trovato la chiave, spinsi
con forza il pollice e riuscii a farla aderire nella fessura tra i mattoni. Frusciai in
basso, tra l'erba, e mi nascosi dietro il muro della casa, accanto allo scheletro della
macchina bruciata. Lei apparve quasi subito. Due gambe nere, senza fretta, abituate al
buio. E in mezzo la solita borsa. Sembrava stanca, aveva la schiena più incurvata del
solito. Allungò il braccio nel vano della porta, ma la chiave le cadde addosso, tra i
capelli. Mi schiacciai contro il muro, mentre lei si frugava la testa. Con un solo
occhio vidi le sue dita che sfioravano la superficie della chiave, e il suo volto intanto
cambiava, lo vedevo a malapena, ma intuivo che si stava riempiendo di un sentimento
preciso. Staccò la gomma e rimase a soppesarla tra le dita: si era accorta che era
bagnata. Guardò intorno nel buio, poi i suoi occhi si piantarono nella mia direzione.
Ora mi scoverà, ora verrà a sputarmi in faccia. Fece due passi, poi si fermò. La luce
lunare la schiariva appena. Mi ero abbassato dietro lo scheletro di quella macchina
bruciata. Lei guardava il buio dove io mi rintanavo e forse riusciva a vedermi. Il suo
sguardo era versato nel vuoto, ma era come se sapesse che ero lì, il pensiero di me le
stava passando sul viso. Non andò oltre. Si voltò, infilò la chiave nella toppa e si
richiuse la porta alle spalle.
La sera dopo cenavo con Manlio in una di quelle trattorie del centro con i tavoli
all'aperto che traballano sul selciato e devi chinarti a sistemare la zeppa sotto la
gamba giusta, poi ti rialzi e ti accorgi che traballa da un altro verso, esattamente come
la vita. Manlio scherzava, gonfiava il corpo dentro la giacca, ma non era allegro.
Aveva avuto un guaio in sala parto, farfugliava qualche frase d'effetto, si
commiserava, e naturalmente mentiva. Era suo malgrado insincero, non si era mai
scrutinato, e non aveva nessuna intenzione di farlo. Lui seguiva i moti degli altri e
finiva per assecondarli. Così, quella sera, con ardore da vero amico, tentava
d'insinuarsi nella tana profonda dove io viaggiavo inappetente. Era già un po' che
durava. Io, zitto, distratto, avevo aggredito l'antipasto con una forchettata violenta,
ma poi lo avevo lasciato lì, senza ordinare più nulla. Manlio cercava di venirmi
dietro, prendeva in prestito il mio umore, e intanto spilluzzicava in giro nei vari
piattini, peperoni, ricotta fritta, broccoletti ripassati.
«Tu ci vai a puttane?»
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